24/04/2024 - La normativa in materia di mutamento della destinazione d’uso delle parti comuni si divide in pre e post riforma del Condominio del 2012, per trovare il proprio apice nel corpo dell’articolo 1117 ter del Codice Civile ma, prima di arrivare a questo, è necessario fare un passo indietro nel tempo al fine di comprendere l’evoluzione legislativa in tema.
Antecedentemente alla riforma, la norma di riferimento era indicata dalla Giurisprudenza costante nell’articolo 1102 del Codice Civile, stante il limite al diritto del singolo condomino rispetto al godimento delle parti condominiali comuni ed al loro utilizzo.
L’articolo in questione tratta della
“cosa comune”, intesa quale comunione ed al primo comma si legge testualmente che
“Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
La Suprema Corte di Cassazione pertanto affermava il diritto del singolo, unitamente a quello degli altri soggetti sostenendo altresì che l’utilizzo del bene in comunione non doveva causare la modificazione d’uso. La Giurisprudenza in tal senso si formò a partire dal lontano 1987.
In parole povere, se veniva modificata la funzione alla quale il bene in comunione era destinato si verificavano delle
innovazioni. Queste ultime, ovviamente,
vietate al singolo condomino. Questi, infatti, non deve assolutamente porre in essere comportamenti che possano pregiudicare o rendere impossibile l’utilizzo della cosa agli altri condomini: utilizzo che può essere contemporaneo, simile, eguale o differente. Ma, comunque, nei limiti della destinazione d’uso originaria.
Pertanto, il limite fissato dalla Legge lo si ritrovava in due brocardi stanti, reciprocamente, la
non modificazione della destinazione d’origine della parte comune ed il non impedimento al contempo di permettere agli altri condomini l’utilizzo del predetto bene.
Molto cambia nell’anno 2012, anno in cui è entrata in vigore la
riforma del Condominio e, con essa, l’articolo 1117 ter del Codice Civile che così recita: “
Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l’assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell’edificio, può modificare la destinazione d’uso delle parti comuni.
La convocazione dell’assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione.
La convocazione dell’assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d’uso. La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d’uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico”.[1]
Da come si evince chiaramente, per quanto sia possibile modificare la destinazione del bene comune, la Legge stabilisce
un quorum ed un iter di convocazione assembleare stringente e ben diverso da quella che, in gergo condominiale, viene definita come l’ordinaria amministrazione.
Innanzitutto, la modifica deve essere approvata dall’Assemblea con una maggioranza che vada a rappresentare i quattro quinti sia dei partecipanti all’Assemblea stessa che i quattro quinti dell’edificio condominiale.
È ovvio, per l’effetto, che tale sede richieda una grande partecipazione ed un consenso più che diffuso. Il quorum deliberativo richiesto è molto alto, non equivalendo alla maggioranza assoluta ma essendo decisamente più elevato anche rispetto a revoca e nomina Amministratore.
La norma sopra richiamata prevede determinati obblighi procedurali estremamente stringenti, dai quali si evince la volontà del Legislatore di porre un freno importante alle modificazioni del bene comune. In particolar modo relativamente alla convocazione dell’Assemblea nella quale, poi, si andrà a votazione in merito alle modificazioni.
Obblighi procedurali che, se non rispettati, rendono invalida sia l’Assemblea stessa che la delibera adottata. Tra questi, la
pubblicità mediante affissione per un determinato (ed anche lungo) lasso temporale.
Inoltre, di fondamentale importanza, i due elementi che devono essere contenuti all’interno della convocazione a pena di nullità della delibera. Innanzitutto,
l’indicazione delle parti comuni oggetto della modificazione ed in secondo luogo, la specifica contenente la
nuova destinazione d’uso alla quale saranno destinate le parti comuni successivamente alla modifica.
All’interno della delibera sarà inoltre necessario specificare l’indicazione espressa che tutti gli adempimenti sono stati realmente effettuati. Trattasi di procedura rafforzata, studiata e posta in essere ad hoc per tali deliberazioni, nettamente diversa da prima della riforma del Condominio.
Il tutto a partire prima dal termine di convocazione per poi passare al
quorum deliberativo in merito all’approvazione delle modificazioni. Fermo chiaramente restando il mantenimento sia del decoro architettonico che la stabilità dell’edificio, dai quali non si può ed in alcun modo assolutamente prescindere.